In Turchia, tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio, quando il settore cinematografico entrò in crisi (l’età dorata del sistema Ye?ilçam, che, negli anni’60 e ’70, garantì circa 150 lungometraggi nazionali prodotti all’anno, giunse ad esaurimento), emerse una nuova generazione di registi indipendenti, che hanno rilanciato il cinema d’autore, realizzando films di qualità con budget limitati. I più rappresentativi di quella che può essere considerata la terza generazione del cinema turco (essendo nati nel corso degli anni ’60) sono: Nuri Bilge Ceylan, Ye?im Ustao?lu, Zeki Demirkubuz, Dervi? Zaim, Semih Kaplano?lu e Reha Erdem.
Sebbene ogni film sia un progetto diverso e i collegamenti fra i filmakers citati non definiscano un vero e proprio movimento culturale, si può affermare che condividono un background professionale e produttivo comune: la non frequentazione di scuole di cinema; l’apprendimento attraverso la produzione di cortometraggi; il costante e decisivo riferimento al proprio patrimonio autobiografico, da cui deriva il fatto che molto spesso sono anche sceneggiatori dei loro films; la residenza ad Istanbul dove negli ultimi 15 anni sono aumentate le facilitazioni tecniche e distributive a favore del cinema indipendente.
Inoltre condividono un ethos cinematografico. Si tratta di un cinema personale con una grande varietà di stili e di approcci alla narrazione, ma che, in un’ottica assolutamente moderna, esprime un tratto comune: la valorizzazione visiva del non detto e del non agito, quindi delle emozioni che la commozione o la monotonia della vita quotidiana impediscono di esprimere apertamente. In quasi tutti i film più significativi degli ultimi 20 anni esistono personaggi incapaci di parlare o a disagio con la parola o incapaci di far comprendere agli altri i propri sentimenti anche quando ne parlano. Le assenze di vere conversazioni sono direttamente collegate all’impossibilità di esprimere i turbamenti personali in termini di comunicazione. Sono il segno di un linguaggio naturalmente limitato, ma anche della malinconia e della frustrazione.

"Bulutlari Beklerken", Yesim Ustaoglu |
Peraltro, in molti casi, il non detto riguarda soprattutto problematiche sociopolitiche, quali la discriminazione, i pregiudizi, la violenza occulta, la crisi di identità e l’amnesia culturale. Si nota il tentativo di far emergere le dinamiche dissimulate dell’egemonia e di mettere in discussione ciò che è stato accettato come “comportamento naturale”. In ogni caso il silenzio, quantunque non in senso letterale o totale, pervade questi films. Vi è quindi una costante rappresentazione di sentimenti inespressi, di assenza di appartenenza e di resistenza alla identificazione con codici sociali predeterminati. Molti dei personaggi concepiscono la propria esistenza in uno spazio transitorio.
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I dilemmi che fronteggiano li conducono ad una condizione itinerante di vagabondaggio, quantunque, spesso, siano essi stessi a scegliere deliberatamente questo status per liberarsi dalle convenzioni della loro precedente esistenza. La loro identità è collocata sempre in una sorta di limbo: tra la città e la provincia, tra l’appartenenza etnica e quella politica, o persino tra la razionalità e la follia. I personaggi, in un senso o nell’altro, riflettono lo sradicamento e le contraddizioni del regista nella sua costante ricerca di verità e di identità personale.
Questi films contengono spesso problematiche riferibili alle esperienze autobiografiche dei registi: l’ambiente rurale o provinciale, le contraddizioni della vita urbana, la famiglia, la relazione padre-figlio e quella madre-figlio, i contrasti nelle relazioni coniugali o di coppia, l’impegno nel movimento studentesco. Alcuni films esplorano il collegamento tra personale e politico. L’impegno dei personaggi in cruciali battaglie politiche non rappresenta solo l’appartenenza ideologica del regista, ma indica anche il crescente coraggio di molti artisti ed intellettuali turchi disposti a parlare più apertamente di scottanti questioni politiche 
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